Isabel Giabakgi
Il 'demone' della linea
Interrogarsi circa le motivazioni, gli stimoli emozionali che spingono un artista ad elaborare, a ‘forgiarsi’ gli strumenti espressivi per una rivisitazione personalissima di soggetti classici, religiosi e architettonici è una domanda più che legittima nel caso di Rita Delle Noci.
Nel tratto dell’Artista di Melfi individuiamo senza difficoltà la scioltezza del disegno e l’abilità di ‘cesello’. Nelle opere grafiche, negli inserti a tempera e all’acquarello la Delle Noci concentra tutto il suo amore per la minuzia tecnica e per l’allusività del racconto. L’occhio dell’osservatore è abilmente guidato dal parziale di un singolo modulo grafico all’unicum della dell’intera opera. Il risultato è una lettura non lineare (sinistra-destra) ma bustrofedica, centripeta e/o centrifuga nella serie dei Rosoni, che percorrono organicamente tutte le implicite possibilità di tale forma, sino alla ricomposizione nel ‘rosone’ per eccellenza, quello delle grandi cattedrali romaniche. Di fronte ad opere come Cancello sul cielo e Gôthica, poi, il pretesto architettonico si giustifica e si esaurisce nella ricerca di una profondità chiaroscurale, che rimarca la versatilità della tecnica adottata.
Nel caso delle opere maggiori, la tecnica si fa aerea e organica, sottilmente governata da un sorvegliatissimo rigore, di volta in volta pronta a bloccare, frenare la prepotenza icastica del soggetto (Medusa), oppure pronta a codificare una graffiante ironia nei confronti della tragedia che si consuma. È questo il caso delle Ali di Icaro, dove la componente grafica si concentra beffarda sul sogno infranto, e quasi sorvola sulla povera figura larvale dell’incauto giovinetto. In questi ultimi casi, l’essenzialità delle figure prescelte domina il campo visivo con una simultaneità ipnotica, quasi aggressiva di linee in movimento, dispiegate su di una superficie che sembra trasparente.
Perseguendo una forma apparentemente semplice e riconoscibile, Rita Delle Noci riesce a cesellarvi felicemente una comunicazione emozionale efficace, che si lascia apprezzare, nel caso della serie delle Icone, per rifrazione diretta di una cifra stilistica marcatamente personale. Le opere grafiche di ispirazione religiosa si fanno così portavoce di un messaggio leggero, discreto: i contenuti si stemperano dichiaratamente in una ieraticità che non manca mai di sorprenderci, nel suo incessante ‘farsi e rarefarsi’ delle forme. In questo caso, la delicata precisione del tratto avvolge e pervade, come preziosa trina metallica, la diafania larvale dei volti, delle mani, di una materia, in definitiva, che ha già optato per la sua declinazione spirituale, come nel caso della delicata spinta ascensionale impressa alla figura dell’Angelo. Così il segno cromatico si coniuga alla fragilità opulenta della componente grafica, facendola concorrere all’indicazione di una dimensione visiva ‘sapienziale’, criptata nel suo artificio tecnico, ma desumibile attraverso il dato emozionale.
Un enigma di linee che appartiene al passato, alla storia, al mito, ma che è soprattutto un enigma in divenire, forte di precisi elementi di continuità che, riaffioranti come un ruscello carsico, in alcune opere significative, vanno ad intrecciarsi in un ‘filo scarlatto’ che solo l’arte è in grado di dipanare lungo l’incolore matassa della vita. Percorso dell’arte e percorso del destino che s’intrecciano nel Filo di Arianna, con un inquadramento del soggetto e dello spazio che insiste sulla combinazione prospettica dei piani.
Ma anche fili come cordami navali.
Non potrà, in tal senso, sfuggire la silenziosa presenza della navicula, preferibilmente ellenica, ora con vele e sartìe ripiegate, ora protese al vento. Il risultato di questa reiterata presenza suggerisce una lettura sottilmente governata da una misteriosa ratio che ne consente la reversibilità esegetica. Nòstos, Navigatio nicolaiana, Partenope sono opere semanticamente inassimilabili; eppure costituiscono altrettante parti della ‘sceneggiatura’ di un evento mitologico sommerso nella memoria di ciascuno di noi. Protagonista assoluta è la nave priva di qualsiasi forma apparente di equipaggio, silenziosa traghettatrice dell’Io lirico e dell’ingegno dell’artista, come vuole una solida tradizione culturale che vede alle sue origini gli stilnovisti, Dante e Petrarca. Nel caso di Partenope, in particolare, il fragile vascello ellenico sembra indugiare in contemplazione del Golfo, sinuosamente sottolineato dal corpo della Sirena, languidamente confusa nella linea di costa, frenata dall’esuberante sagoma del Vesuvio. La Delle Noci ama la mediterraneità sulfurea del Regno di Napoli, e lo dimostra anche in Etna 1669, con l’indimenticabile drago trifauce che avvolge le sue spire nelle viscere del Vulcano siciliano.
Che quella dell’Artista sia, in definitiva, un’elegante mise en abîme – una vera e propria ‘sospensione sull’abisso’ – dei suoi soggetti, è particolarmente evidente nella Trilogia del potere. Il vero motivo d’interesse, in questo caso, più che nel Potere stesso, risiede nella drammatica ‘prospicienza’ ad esso, ed è rimarcato dalle situazioni di angosciosa attesa del Cardinale, del Cavaliere e del Sovrano. Le tre figure incarnano una forza assoluta non ancora completamente posseduta e che esibisce loro la fragilità dell’inganno: false prospettive, dettagli architettonici che sovrastano minacciosamente la scena o mostrano tutta la loro irridente mancanza di solidità, distese dall’incerta consistenza e calpestabilità si definiscono come altrettanti simboli di quel turbamento, di quell’inevitabile senso di solitudine di alfieriana memoria, che ogni forma di egemonia – religiosa, militare, politica – comporta.
E come spesso accade nelle opere di Rita Delle Noci, elementi significativi si palesano altrove, sapientemente risemantizzati, quasi a stabilire un sottile dialogo (o contrasto) fra le varie opere. Anche il San Giorgio e il drago lottano su un’insidiosa pianura che nasconde l’abisso, ma le minacciose spire del mostro, da essa emergenti, non turbano affatto il Santo Cavaliere che, assistito dalla Grazia celeste compie la sua missione con ineffabile cipiglio.
Nell’abbandonare la pittura per dedicarsi alla grafica e alla progettazione, l’artista belga Henry van de Velde continuò a dichiararsi «posseduto dal demone della linea»; allo stesso modo, la nostra Artista lascia trasparire attraverso un elaborato teorema stilistico il ‘suo’ demone, che detta uno spazio scenico apparentemente senza tridimensionalità, dove trine e arabeschi culminano nello scatto elastico delle direttrici lineari che sottendono il decór.
Isabel Giabakgi
Critico letterario